A cura di Marco Scotini
Fondazione Marconi e Gió Marconi sono lieti di annunciare Gianni Colombo. A Space Odyssey,
un’importante retrospettiva dedicata all’artista milanese in occasione del trentesimo anniversario dalla sua
scomparsa. La mostra, curata da Marco Scotini, intende mettere a fuoco la particolare drammaturgia
spaziale che connota il suo lavoro, a partire da un confronto con il colossal fantascientifico di Stanley
Kubrick del 1968.
Considerato uno dei maggiori esponenti dell’arte cinetica e ambientale internazionale, Gianni Colombo fa
del vincolo tra spazio e corpo il catalizzatore di tutti i suoi interessi di ordine plastico. Attraverso l’uso di
flash luminosi, di oggetti in movimento, di ambienti immersivi e il ricorso a elementi architettonici isolati,
l’artista realizza dispositivi spaziali perturbanti in grado di disorientare le forme percettive acquisite e di
decostruire i codici dei comportamenti ordinari.
Se per tutti gli anni Sessanta, in sintonia con Lygia Clark, Colombo sfida la rigidità con la messa in scena
dell’elasticità, durante gli anni Settanta pone la gravità al centro delle propriericerche. Non è un caso che le
tre grandi installazioni concepite, in tempi successivi, per lo Studio Marconi – Campo praticabile (1970),
Bariestesia (1975) e Topoestesia (1977) – segnino una tappa fondamentale del suo percorso, assumendo la
forza di gravità come fattore (tanto ineluttabile quanto invisibile) da superare. Le bande elettroniche del
teleschermo o la percezione barestesica (condizione di equilibrio), così come la progressiva sostituzione
dello spazio cubico con quello curvo, sono materia prima di questa produzione.
È infatti con il piano levitante di Campo praticabile che Colombo interviene sul pavimento della galleria con
un ambiente realizzato in collaborazione con Vincenzo Agnetti. Sarà quest’ultimo a scriverne: Data una
base; il piano terra, una pedana o altro, identificabili nella soglia di sensibilità, abbiamo comunque un campo
composto da due semisfere: la superiore come campo virtuale positivo tendente alla ridondanza, l’inferiore
come campo negativo imprevedibile previsto.
Nello stesso 1970 una straordinaria foto di Ugo Mulas ritrae uno dei tre corridoi della Topoestesia
presentata alla mostra “Vitalità del Negativo” come uno spazio centrifugo. Tutte e quattro le pareti
perimetrali convergono verso quella di fondo, che è l’effetto visibile di una torsione, non permettendo così
l’identificazione di nessun asse di riferimento. Gianni Colombo è al centro dell’immagine: i piedi poggiano
su una parete laterale e il suo busto sull’altra di fronte, con le mani compresse sulla superficie. Potremmo
ruotare l’immagine di 45 gradi e la parete laterale potrebbe trasformarsi immediatamente nel piano
pavimentale. Quindi, si ha l’impressione che ad essere fotografata sia piuttosto una sorta di navicella
spaziale in cui i corpi degli astronauti orbitano su uno spazio antigravitazionale.
Del resto l’allunaggio dell’Apollo 11 risale al luglio 1969 e Topoestesia di Colombo è di appena un anno
dopo. Il sensazionale film sci-fi di Stanley Kubrick, 2001. Odissea nello Spazio, è invece del 1968. La mostra
indaga le sfide di Gianni Colombo alla gravità e la sua idea di piano inclinato: aspetto condiviso con molta
danza contemporanea coeva, da Yvonne Rainer a Simone Forti. Dalle sue primissime opere in ceramica
Costellazioni Intermutabili del 1960 si arriva alle strutture metalliche sospese e in movimento, Spazi Curvi,
degli anni ’90, passando per la ricostruzione di alcuni ambienti fondamentali (Bariestesia 1973 e Topoestesia
1977), attraverso cui restituire parte della storia dello Studio Marconi. In sostanza, l’esposizione intende
essere un viaggio all’interno di una strana navicella spaziale, in cui Gianni Colombo è in compagnia di un
equipaggio del tutto eccezionale (da Vincenzo Agnetti a Ugo Mulas, da Joe Colombo a Maria Mulas). Un
viaggio attraverso il “sapere incorporato” (Donna Haraway), in grado di mettere in discussione la sicurezza
delle nostre coordinate cartesiane.
L’analogia tra la spazialità di Colombo e quella messa in scena nel film di Kubrick nasce dalla suggestione di un film di Annette Michelson e deriva dall’uso, in entrambi i casi, del disorientamento percettivo per ristabilire lo stato di equilibrio del nostro corpo come processo aperto. Si risponde al perturbamento sensoriale con un re-aggiustamento fisico operato dalla stessa esperienza. Un sapere situato, lontano da ogni astrazione.